Non è un libro stavolta il soggetto di
questa “recensione”, ma un luogo. Un angolo nascosto e poco
conosciuto della nostra splendida città che, comunque, con i libri
ha molto a che fare. Sto parlando di Casa Bargellini.
Il palazzo, in via delle Pinzochere, a
lato della Basilica di Santa Croce, fa parte del circuito delle Case
della Memoria. Qui risiedeva Piero Bargellini, più noto come il
Sindaco dell’Alluvione, e la visita si articola in 3 luoghi:
l’androne e il giardino e le due stanze del suo studio.
Già il palazzo vale da solo la
visita: appartenuto ai Cepparello, ai Poggio Bracciolini, agli
Antinori, ai da Verrazzano (esatto, quello del ponte e della nave), e
a Casamorata, è un tipico palazzo rinascimentale con l’altana, un
giardino impensabile, un portico ad archi e colonne snello ed
elegante, pietra serena a profusione. Per una rampa di scale
cinquecentesca (originale) si entra nella prima delle due stanze
dello studio. L’atmosfera è incredibile. Oggetti, ricordi, pezzi
di affreschi, biglietti di ringraziamento, articoli di giornale,
fotografie, quadri, ritratti, mani di statue lignee, persino lo zaino
con cui Lelia, moglie di Piero, andò in viaggio di nozze. I due si
recarono in Corsica e la visitarono muovendosi a piedi e mangiando e
dormendo dai contadini. Tornarono magrissimi e neri come calabroni,
tanto che i loro genitori li costrinsero ad un mese di clausura
perché impallidissero e rimettessero su qualche chilo. Stiamo
parlando del 1929.
Ogni oggetto ha una storia ed è
legato a qualche aneddoto della vita della famiglia Bargellini
(famiglia numerosissima visto che Piero e Lelia ebbero sette figli e
16 o 17 nipoti), compresi i 2 pianoforti su cui suona e studia
Gregorio Nardi, musicista e studioso, nipote di Piero e cicerone
della nostra visita insieme a Annegret, arrivata in Italia nel 1984,
quindi dopo la morte di Bargellini, ma che ne parla con una passione
e una tenerezza da farti pensare che sia lei, la nipote.
Un capitolo a parte spetta alle
lettere che il Sindaco riceveva, su sua sollecitazione, dagli
alluvionati con le richieste di aiuto. In mostra ce n’è una sola
ma Gregorio conta di pubblicarne una raccolta per il cinquantennale.
Piero Bargellini si trovò sindaco per caso: il governo di Firenze
era commissariato da molto tempo e fu deciso di eleggere protempore
una figura non schiettamente politica. Fu scelto quello che era
ritenuto un intellettuale. Il suo mandato doveva durare 3 mesi, da
luglio a settembre del ’66, ma alla scadenza gli fu chiesto di
rimanere fino all’8 novembre 1966, data in cui era fissata la
riunione del consiglio comunale per eleggereil Primo Cittadino della
Città Gigliata. Ovviamente, l’8 novembre 1966 non c’era la
processione di persone disposte a fare il Sindaco e Bargellini rimase
ad assolvere un compito gravosissimo, di cui nessuno lo riteneva
capace e lo fece a suo modo: con concretezza e guardando prima alle
persone e poi alle cose. Resta famosa una delle sue frasi: prima del
Cristo di Cimabue devo pensare ai poveri cristi. C’era quindi,
dicevamo, bisogno immediato di risolvere le urgenze delle persone che
avevano perso tutto: casa, attività, speranza. Dalla Camera di
Commercio americana arrivava denaro in quantità enormi e il Sindaco,
per distribuirlo con criterio, saltando la burocrazia che fra l’altro
neppure funzionava, chiese ai cittadini di scrivergli, ma di
scrivergli a casa, in modo da fargli sapere di cosa avessero bisogno,
in modo che lui avesse evidenza di come il denaro veniva elargito e
in modo da non rendere vane, ma immediatamente evase, le richieste di
aiuto. Quelle lettere (Gregorio racconta che più o meno ad ognuna
corrisponde un biglietto di ringraziamento) sono uno spaccato di
umanità commovente. Per fare un paio di esempi, una cominciava con:
“Gentile signor Sindaco, come da accordi presi in data 9 novembre
sul tram numero 14…”(Bargellini viaggiava in autobus e lì
parlava con le persone); un’altra invece contiene una vera e
propria lista della spesa di una donna che aveva perso anche i letti
ed aveva bisogno dei soldi “..per pagare il gasse, per comprare il
cappotto e un frigidaire. Mi servono almeno 33.000 mila lire, signor
Sindacho…”(non è un refuso, lo scriveva proprio così!)
Si passa poi nell’altra stanza, il
vero e proprio “sancta sanctorum” di Bargellini. Anche qui
oggetti a profusione ma soprattutto libri. Piero era uno scrittore,
anche, e il Palazzo fu comprato proprio con i soldi che Vallecchi
fornì a Lelia “come anticipo sui proventi del prossimo libro di
mio marito”. Il “prossimo libro” in questione fu un testo
pedagogico, Bellariva, che ebbe un successo tale da coprire le spese
dell’acquisto e degli 8 anni di restauro seguenti. Ci sono storie
molto belle legate proprio a questo, visto che il palazzo fu comprato
nel 1946 dalla moglie di Piero ed era diviso in tanti appartamenti in
cui abitavano svariate famiglie, quasi tutte indigenti e fu cura di
Bargellini non procurare loro pressioni ed aiutarli a ritrovare una
nuova sistemazione, ma, signori miei, se vi racconto tutto vi tolgo
il piacere della visita!
In questa ultima stanza, dicevo,
Piero lavorava. Scriveva i suoi libri, studiava, faceva progetti (era
geometra! Lo sapete che ha disegnato lui piazza Gavinana quando era
assessore? E lo sapete che lo chiamavano “Bargellini panca e pini”
perché piantava alberi dovunque? A lui si debbono gli alberi della
zona di piazza Viesseux per esempio. Pare che se qualcuno calvo
girava senza cappello gli dicessero: mettiti il cappello che se
Bargellini ti vede la piazza ci pianta un albero! Ha fatto tantissimo
per Firenze, che amava profondamente, a cominciare dal recupero di
Forte Belvedere, allora ancora militare, fino ai tabernacoli lungo le
strade. Gregorio racconta che la sera spesso lo accompagnava fuori a
piedi, in piazza Tasso per esempio, dove andava a controllare che i
lampioni funzionassero o a verificare se qualche lamentela che aveva
ricevuto fosse fondata. Girava per strade di cui l’attuale Giunta
ignora l’ubicazione e probabilmente l’esistenza!) E curava le sue
riviste. Non prima però di aver risposto a tutta la sua
corrispondenza. Quello era il suo primo impegno: rispondere a tutti.
Davanti a quel tavolo sono passati alcuni dei nomi che hanno fatto la
storia della letteratura moderna: Carlo Bo, Indro Montanelli, Mario
Luzi, Gianni Rodari, Carlo Betocchi, Ungaretti, Quasimodo. Artisti
d’ogni tipo come Costetti (potrei raccontarvi la storia del
ritratto fatto da Costetti ai due sposi…potrei ma non lo farò!),
Viani, Rosai e chi più ne ha più ne metta. In quello studio è nata
l’associazione amici dei Musei e in quella stanza si riuniva il
potentissimo Comitato dell’estetica cittadina. E per tutti c’è
un aneddoto, per ognuno una storia particolare.
E’ stata un’esperienza
emozionante, l’incontro con un uomo che non ho conosciuto ma che,
grazie alle sue cose, sembrava presente: una personalità di
un’onestà intellettuale e morale rarissima, concreto, pragmatico,
disponibile verso chiunque a prescindere dal nome o dal colore. Un
uomo che ha amato Firenze come si ama una donna e la sua gente come
si amano i figli. Un giusto, come direbbero gli ebrei.
Un’esperienza talmente
coinvolgente che l’ho voluta condividere immediatamente, tanto che
ci sono ritornata una seconda volta dopo solo 10 giorni. Ed è stato
ugualmente bello.
Va detto che
per una buona parte incidono Gregorio (di cui, fra l’altro, mi sono
perdutamente innamorata dopo più o meno quattro minuti) e Annegret:
il loro affetto e la loro passione sono tangibili. La vita del loro
nonno, raccontata dalle loro voci, sembra un romanzo d’avventura.
Certo, potrei anche raccontarvi di
quando Lelia buttò fuori di casa Fanfani tenendolo per un orecchio,
o di quando la nascita dell’ultima figlia salvò la vita a Lelia e
Piero, di quando Bottai s’impegnò perché Bargellini non venisse
fatto fuori, di quando “razza: dicesi di ovini e buoi, non certo
d’uomini!”, di quando...
Silvia Corazza
Silvia Corazza
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